Visita con il panorama a 360° la chiesa di Sant’Antonio da Padova.
Nel XIII secolo convento fuori le mura delle Clarisse
fino al secolo XIV.
Le origini dell’attuale chiesa di Sant’Antonio di Padova a Città Sant’Angelo risalgono a quando sul colle di Santa Chiara, fuori dalla cinta muraria, alla fine del XIII secolo sorse un ricovero di Clarisse, che fu abbandonato intorno alla metà del XIV secolo.
Dopo circa un secolo d’abbandono, fu l’Ordine dei Minori Osservanti che, dietro assenso di Papa Pio I nel 1458, provvide a riadattare ed ampliare il convento semidistrutto con annessa chiesa, che fu intitolata a San Bernardino e ripopolata, nel 1460, grazie all’arrivo di 12 confratelli. L’Antinori afferma che appena quattro anni dopo l’isola monastica veniva annoverata quale dodecimo degli altri luoghi della Provincia denominata del Santo ed aggiunge che nella piccola chiesa era stato sepolto Fra’ Serafino da Chieti minore osservante sacerdote qui morto concetto nel 1510.
Nel 1627 il convento passò ai Frati Riformati, comunemente detti “zoccolanti”, che lo ampliarono nel 1692 e con successivi lavori nel 1782 (nuova cucina) e nel 1807 (nuovo refettorio); nel 1837 divenne luogo di studi teologici.
Intorno al 1694, a cura del Canonico Procaccini, religioso nativo di Città Sant’Angelo, vennero restaurati gli affreschi che adornavano sulle pareti esterne della chiesa e del chiostro, pitture che erano state realizzate nel secolo XIII all’epoca dell’insediamento delle Clarisse. Scrive Pace che le pitture mostravano di essere opere di un solo artista e rappresentavano martiri, frati ritratti di loro e più molti ritratti di monache clarisse. Purtroppo quelle preziose testimonianze in epoca recente (XX secolo) sono state cancellate.
La chiesa, di recente restaurata a cura della Confraternita di S. Antonio di Padova, è a navata unica con pareti ornate da stucchi di epoca barocca; sul lato sinistro si aprono due ampie cappelle, nella prima si conservano le reliquie di San Felice Martire, mentre la seconda è dedicata a Sant’Antonio e da qualche anno custodisce anche una reliquia del Santo donata dall’omonima Basilica di Padova.
Nella sacrestia si conservava un pregevole dipinto del ‘400, olio su tavola, raffigurante S. Michele, oggi restaurato e custodito presso la Soprintendenza dell’Aquila.
La facciata di gusto classicheggiante, ripartita a lesene, è coronata da un frontone triangolare. Durante il restauro è riaffiorato l’originale portale in laterizi bicromi, con ogni probabilità appartenente all’originario oratorio delle Clarisse.
Le reliquie di San Felice Martire
“Imperocché Leone X (Giovanni dei Medici) che tenne il governo della Chiesa dal 1513 al 1522, volendo dare un segno d’affetto, e quasi diremmo di regale munificenza, a Francesco Minerbetti, stretto suo parente, dopo il solenne ricevimento che in qualità di Arcidiacono del Capitolo, aveva fatto di questo Papa nella basilica di Santa Maria del Fiore in Firenze, sua patria; non trovò uno migliore, quello di donargli le insigne reliquie di San Felice Martire. Queste notizie, attinte dall’Inghirami nella sua “Storia della Toscana”, e dal Richa “Chiese Fiorentine”, ci portarono naturalmente a dire come e per quali vicende speciali le ormai più che storiche reliquie si trovino trasferite nella chiesa di Sant’Antonio in Città Santa’Angelo”
Fonte: G. Can.co De Marco “San Felice Martire e la translazione delle sue reliquie in Città Sant’Angelo” Tip. Diocleziana, Roma, 1916
Le spoglie di Fra Serafino da Chieti
“Memorie del Venerabile Padre Fra Serafino da Chieti Osservante.
Il Venerabile Padre Fra Serafino da Città di Chieti, Provincia di san Bernardino, quantunque non fosse molto istruito nella lingua latina, nulladimeno fu dal Signore innalzato ad altissima intelligenza della sagra Sicrittura, onde divenne famoso Predicatore del suo tempo, cagionando stupore a letterati dottissimi, come fra gli altri l’attestò Nicolò di Paolo da Sulmona peritissimo Filosofo, e Dottore in Teologia, tanto risplendeva in lui la grazia dello spirito santo, ed il conoscimento de’ segreti Divini, per la qual cosa era accettissimo a tutti i Popoli d’Italia, ed indusse moltissimi secolari a lasciare il Mondo, ed entrare nella Religione. Fece anco opere notabili in beneficio de’ Frati del suo istituto nella sua Provincia, in quella della Marca, specialmente in Fabriano, in quelle di Genova, e di Puglia. Passò da questa vita al Signore nel Convento di Cività Sant’Angelo della medesima Provincia di San Bernardino, circa il 1510.
Scrive di lui il Beato Bernardino da Fossa nel libro di quella Provincia, la terza parte Croniche libro 8. capitolo 44. e l’Annalista 1510. numero 13.”
Fonte: “Leggendario francescano…” di Benedetto Mazzara, 1722
Il dipinto di San Michele Arcangelo
Il San Michele Arcangelo (1450 circa) è un’opera molto pregevole per la storia della pittura gotica abruzzese. L’Arcangelo con una mano alza la spada contro il demone e con l’altra regge la bilancia per pesare le anime. Sulle spalle e sulle ginocchia dell’Arcangelo sono posti quattro cherubini, particolare unico nel suo genere.
La tavola raffigurante San Michele, impreziosita da una ricca cornice, nel 1973 fu trasferita per motivi di conservazione nel deposito del Museo Nazionale d’Abruzzo a l’Aquila; consta di due larghe assi lignee e rappresenta verosimilmente quanto ci resta di un complesso di più ampie dimensioni. La figura dell’Arcangelo era in origine fiancheggiata da due possenti candelabre, di cui si conserva solo quella di sinistra.
L’alto profilo del dipinto si evince dall’eleganza delle proporzioni che imprimono alla figura, leggermente inflessa, un sottolineato slancio ascensionale; dalla forte valenza strutturale e decorativa delle pseudo colonne, accordate nel mezzo da un delizioso vaso ansato; dalla felice presentazione delle quattro vigili testine che occhieggiano dalle ginocchiere e dagli spallacci dell’armatura. L’esame dei caratteri stilistici del dipinto, tuttora inedito, coinvolge per via diretta l’ambito delle produzioni riferite al Maestro di Caramanico, ignoto pittore attivo in Abruzzo, di cultura marchigiana di stampo alemanno-crivellesco, con consistenti influssi toscani.
Una brevissima notazione va dedicata alla sontuosa cornice che accompagna la tavola, di una fattura antica, che potrebbe risalire ai primi decenni del Cinquecento, per la tipica lavorazione delle baccellature.