La Carboneria
La Carboneria era una società segreta che nacque in Francia intorno al 1600 per volontà del popolo di ribellarsi all’oppressione dei regnanti di quell’epoca e prese quel nome perché la maggior parte dei patrioti svolgeva il mestiere di carbonaio.
In Italia, invece, questo movimento patriottico (importato dai soldati francesi che occupano parte della penisola italiana) nacque nei primi anni del 1800 per il desiderio di libertà delle classi sociali più elevate di quell’epoca e con esso ebbe inizio il Risorgimento Italiano che portò all’Unità d’Italia nel 1861.
I Carbonari per non farsi scoprire, quando s’incontravano, usavano perfino un linguaggio che solo loro potevano comprendere. Per i vari raggruppamenti ed i luoghi dove si riunivano erano chiamati “vendite”, il loro capo “gran maestro”, i Carbonari “buoni cugini”, avevano la loro bandiera di colore rosso-nero-celeste (a simboleggiare: fede, speranza e carità) che custodivano in un luogo ancor più segreto dei loro nascondigli ed avevano anche un Santo protettore “San Teobaldo”.
I moti carbonari di Città Sant’Angelo
Dai libri di scuola si apprende che i primi moti carbonari si ebbero a Napoli nel 1820 seguiti da quelli piemontesi del 1821.
Invece, pochi sanno (tranne gli angolani) che la prima ribellione alla tirannide straniera partì proprio da Città Sant’Angelo nel 1814 contro il regime di Gioacchino Murat, re di Napoli ed anche sovrano dei nostri concittadini di allora che facevano parte del suo reame.
Alla “Vendita Carbonara” (raggruppamento) di Città Sant’Angelo appartenevano i nostri illustri compaesani: il Gran Maestro (capo dei Carbonari), Michelangelo Castagna (medico), i Buoni Cugini (Carbonari), Filippo La Noce (medico) e Domenico Marulli (sacerdote).
Ora veniamo ai fatti dei nostri eroi e del nostro paese, Città Sant’Angelo, partendo dalla rivolta di Pescara che si ebbe il venerdì 25 marzo 1814. L’azione fu decisa nel corso delle riunioni segrete delle varie “vendite” perché, ricorrendo la festa della Santissima Annunziata, proprio a Pescara si sarebbero svolti, con una grandiosa fiera, i festeggiamenti per l’onomastico della Regina di Napoli (moglie di Gioacchino Murat) che si chiamava appunto Annunziata Carolina Bonaparte (sorella di Napoleone Bonaparte).
Non poteva esserci migliore occasione di questa grande festa per far entrare a Pescara armi e munizioni nascoste nei carri dei mercanti che dovevano animare le bancarelle della fiera. Nei piani dei patrioti era anche previsto che, per dare man forte ai Carbonari pescaresi, sarebbero potuti entrare tutti gli altri patrioti provenienti dalle “vendite” dei paesi vicini: Città Sant’Angelo, Penne, Loreto Aprutino, Spoltore, Moscufo, Pianella, Cappelle ed altri ancora.
Inoltre, i Carbonari prevedevano anche che la guarnigione di soldati murattiani, che presidiava la Città, sarebbe stata distratta dai festeggiamenti e nella gran confusione sarebbe stata facilmente sopraffatta, in quanto tutto il popolo si sarebbe sollevato insieme ai temerari Carbonari che avrebbero iniziato i combattimenti dopo che, come erano segretamente d’accordo, uno di loro avrebbe sparato il primo colpo di pistola. Purtroppo le cose non andarono così, perché la sera che precedette l’insurrezione, un carbonaro di Pescara si macchiò di tradimento andando a raccontare i piani segreti al capitano Filieu che comandava la guarnigione murattiana dislocata nella piazzaforte di Pescara. Il capitano Filieu dopo aver ricevuto la soffiata dal traditore, chiamò i rinforzi, fece puntare i cannoni sulle piazze e le strade della città e diede ordine ai suoi soldati di non far entrare nessuno in città, di disperdere la folla presente ed iniziare le perquisizioni che fecero scoprire ben presto le armi e le munizioni, ancora nascoste nei carri, prima ancora che potessero essere utilizzate dai Carbonari e quindi quel colpo di pistola, che doveva dare inizio alla rivolta, non partì mai e i Carbonari, per avere salva la vita, dovettero fuggire precipitosamente e con varie peripezie raggiunsero i paesi di appartenenza.
Così la sommossa di Pescara fallì miseramente per colpa di un traditore.
Tra i Carbonari che si erano recati a Pescara per partecipare alla rivolta c’era anche il nostro eroe Michelangelo Castagna, Gran Maestro dei Carbonari Angolani, che non si perse d’animo ed una volta rientrato a Città Sant’Angelo si riunì, quella stessa notte del 25 marzo 1814, con i suoi amici Marulli, La Noce e tutti i patrioti che appartenevano alla “vendita” del nostro Paese, prendendo la decisione di far ripartire la sommossa proprio da Città Sant’Angelo il 27 marzo 1814.
Quel giorno si celebrava la domenica di Passione (quindici giorni prima della Santa Pasqua) e per tale ricorrenza, in quell’epoca, all’alba suonavano le campane e proprio il loro suono sarebbe stato il segnale per tutti i Carbonari che dovevano scendere armati per le strade del paese e così fu.

Insegna della Carboneria issata sulla torre dell’orologio. Bandiera a tre colori rosso, nero e celeste, corrispondenti a fede, speranza e carità.
Tutti i Carbonari si ritrovarono per le strade di Città Sant’Angelo ed al grido di: “Viva la libertà, evviva la Carboneria”, mentre alcuni di loro issarono la bandiera della Carboneria (rossa, nera e celeste) sulla torre dell’orologio (di fronte la chiesa di San Francesco), altri disarmarono e imprigionarono i soldati nemici che presidiavano il nostro Paese per far rispettare le severe leggi del re Gioacchino Murat.
Quando i nostri concittadini dell’epoca, svegliati dal suono delle campane, dal frastuono degli accadimenti e dagli spari, scesero anch’essi in strada e videro i soldati nemici messi al mal partito, si armarono di coltelli, falci e bastoni per dare man forte ai valorosi eroi Carbonari.
Così, a differenza di ciò che era accaduto a Pescara, la sollevazione dei Carbonari per la liberazione di Città Sant’Angelo si era conclusa con successo e per ringraziare l’Altissimo, il sacerdote e Carbonaro Don Domenico Marulli celebrò la Santa Messa nella nostra collegiata di San Michele Arcangelo gremita di Carbonari e di Angolani, dopo di che: musica e danze.
A questo punto bisognava creare un governo provvisorio per gestire anche militarmente il nostro paese ed entrarono a farne parte proprio i nostri tre compaesani Carbonari: Michelangelo Castagna, Domenico Marulli e Filippo La Noce che diedero immediatamente disposizioni agli altri Carbonari di organizzare la difesa cittadina controllando tutte le vie di accesso al paese, nonché di sabotare il telegrafo per evitare che qualche traditore, vista l’esperienza di Pescara, potesse informare Gioacchino Murat di ciò che era accaduto a Città Sant’Angelo. Inoltre fu ordinato ad alcuni Carbonari di togliere il rivestimento di piombo delle cupole delle chiese di Santa Chiara e San Francesco per fonderlo e farne pallottole per fucili e pistole. All’indomani di questi fatti, per rinforzare le file degli eroici Carbonari Angolani, arrivò da Penna S. Andrea (Teramo) il capitano Bernardo De Michaelis (compagno di studi presso il Seminario Diocesano di Penne di Don Domenico Marulli e del Dottor Filippo La Noce) alla testa di 200 Carbonari, suscitando un vero e proprio tripudio dei 5.000 abitanti di Città Sant’Angelo (oggi circa 15.000 abitanti).
La reazione di Gioacchino Murat non si fece attendere ed il giorno di Pasqua, 10 aprile 1814, fece marciare verso Città Sant’Angelo un esercito di 5.000 uomini, provenienti dalle guarnigioni delle città vicine, con tanto di cavalleria e numerosi cannoni.

Il generale Florestano Pepe
Due squadroni di cavalleria, armati fino ai denti, entrarono simultaneamente da Porta Casale e Porta Sant’Angelo (vicino alla piazzetta dell’Istituto Magistrale) e si capì che, di fronte a questa imponente dimostrazione di forza dei Murattiani, ci sarebbe stato poco da fare per gli Angolani, la lotta sarebbe stata impari e si sarebbe corso il rischio di coinvolgere la popolazione inerme che avrebbe subito perdite umane ed inutili distruzioni. Pertanto, buona parte dei Carbonari dovette abbandonare il Paese confidando nella clemenza che il Generale Florestano Pepe, comandante delle truppe degli invasori, avrebbe dovuto avere verso il popolo Angolano. Infatti la decisione presa dai Carbonari, di non opporre resistenza al ritorno dei nemici, si rivelò saggia in quanto non ci fu nessun tipo di rappresaglia verso alcuno e buona parte dell’esercito invasore lasciò il Paese dopo qualche giorno.
Il re Gioacchino Murat ritenne che il comportamento del Generale Florestano Pepe era stato troppo morbido verso i rivoltosi e fu così che lo fece rimuovere dando l’incarico di presidiare Città Sant’Angelo e i paesi vicini al più severo Generale Carlo Montigny che si stabilì a Chieti inviando nel nostro paese il Maggiore Pepe (caso di omonimia con il precedente Generale Pepe) con un reggimento di soldati murattiani, i quali si accamparono nel Piano degli Zoccolanti (il nostro giardino) e ricevettero l’ordine di sorvegliare tutte le porte di accesso e le strade di Città Sant’Angelo. A questo punto si comprese benissimo che le intenzioni di Montigny erano quelle di scoprire e punire i responsabili della rivolta e quindi Michelangelo Castagna decise di allontanarsi dal nostro paese a differenza di Domenico Marulli e Filippo La Noce che vi restarono.
Il Maggiore Pepe, molto ingannevolmente, si dava da fare per andare incontro alle esigenze degli ingrati cittadini affinché potesse farseli amici per carpire quante più informazioni utili per mettere le mani addosso ai Carbonari Angolani. Organizzava persino dei banchetti con i personaggi illustri del nostro paese riuscendo ad avere tra gli ospiti della sua residenza (palazzo Coppa-Zuccari che si trova sul nostro Corso principale di fronte al Palazzo Comunale) persino i Carbonari Don Domenico Marulli e Filippo La Noce, i quali inizialmente, con molta prudenza, avevano rifiutato qualsiasi invito. Il modo di fare tanto gentile del Maggiore Pepe trasse in inganno perfino Michelangelo Castagna che decise di rientrare anche lui a Città Sant’Angelo pensando di non avere più nulla da temere. Così fece la domenica 15 maggio 1814 verso le 21,00 e quando si trovò nei pressi della nostra Collegiata di San Michele Arcangelo sentì il bisogno di pregare e vi entrò. All’uscita dalla Collegiata, sotto il porticato, incontrò un ufficiale della milizia murattiana che dopo averlo salutato, iniziò una conversazione invitandolo a passeggiare insieme a lui e successivamente ad entrare nel Palazzo Coppa-Zuccari dove venne accolto perfino dal Maggiore Pepe che conversando lo introdusse in un salone dove di lì a poco si presentarono, accompagnati da altri ufficiali, i Carbonari Domenico Marulli e Filippo La Noce ed a questo punto il Maggiore Pepe disse: “Signori, siete in arresto!”. Erano le 23:00 del 15 maggio 1814.
In paese si diffuse subito la notizia di quanto era accaduto, tanto che la madre di Castagna seppe prima che il figlio era stato arrestato piuttosto che era rientrato in città. I soldati della milizia si sparsero per le strade costringendo le persone che erano ancora in giro a rientrare nelle loro case e così sul nostro Paese scese un pesante silenzio rotto solo dai passi dei 120 soldati che si schierarono in due file parallele tra le quali, una volta scesi sul nostro Corso, furono sistemati i prigionieri: Marulli davanti, Castagna in mezzo e La Noce era l’ultimo. La destinazione di questo triste corteo era Chieti dove i nostri eroi avrebbero subito un processo per quello che avevano commesso. La colonna di soldati e prigionieri s’incamminò verso la strada del Crocifisso e mentre procedevano Castagna decise che, a costo di essere ucciso, avrebbe tentato la fuga. Erano arrivati in prossimità di una piccola Cappella votiva (esiste ancora su quella strada) e mentre il Maggiore Pepe, che non era convinto dell’itinerario, approfittò per chiedere a dei contadini se la strada che stava percorrendo era quella giusta, contemporaneamente si coprì la luna e a questo punto Castagna, con tutte le sue forze, diede una poderosa spallata ai soldati a lui più vicini facendoli rotolare a terra e dopo una breve corsa, sotto una gragnola di proiettili sparati dalle guardie, si tuffò letteralmente in un fosso coperto di rovi mentre altre pallottole gli passavano sulla testa. Numerosi soldati si scaraventarono al suo inseguimento lungo la strada, trovarono il suo cappello e pensarono che fosse scappato per quella stesa via dopo essere uscito dal fosso dove lui, invece, era ancora rannicchiato immobile respirando a tratti per non farsi scoprire.
Alcuni soldati, entrati nel fosso, gli passarono vicino ma, per fortuna non lo videro. Restarono sul posto alcune ore ma del Carbonaro Castagna nessuna traccia e si fece quasi l’alba quando il Maggiore Pepe diede l’ordine di legare gli altri due Carbonari che non erano stati così lesti a fuggire come il loro compagno. Le legature furono così serrate che al La Noce fu strappata perfino la barba e così ripartirono per Chieti. Mentre il Castagna, quando si accertò che i soldati ormai avevano abbandonato quel luogo, si incamminò, con tutta la prudenza del caso, verso Atri dove viveva una sorella che lo nascose per oltre un anno fino a quando non si ebbe la caduta del re Gioacchino Murat. Intanto, il Capitano Bernardo De Michaelis (il Carbonaro che da Penna S. Andrea era accorso a Città Sant’Angelo il giorno stesso della rivolta del 27 marzo 1814 con 200 altri Carbonari) pur essendo libero, fu costretto a consegnarsi alla milizia francese di Teramo per quante vili ritorsioni stavano subendo i suoi familiari per colpa sua. Anche lui fu trasferito a Chieti per subire il processo.
Tutti i Carbonari dopo le rivolte dei paesi intorno Città Sant’Angelo, oltre a Don Domenico Marulli, Filippo La Noce e Bernardo De Michaelis, vennero giudicati e condannati a morte mediante fucilazione e la stessa sorte toccò ai soldati francesi del nostro paese perché colpevoli di essersi fatti disarmare dai Carbonari, piuttosto che morire combattendo per sedare la rivolta del 27 marzo 1814; mentre su Michelangelo Castagna venne messa una taglia e qualora fosse stato catturato sarebbe stato fucilato anche lui, cosa che, per sua fortuna, non avvenne mai. I tre eroi Carbonari una volta condannati vennero trasferiti dal carcere di Chieti a quello di Penne perché il Generale Montigny decise che proprio in questa città sarebbe stata eseguita la fucilazione per intimorire gli abitanti del luogo affinché non si ribellassero ancora.
Don Domenico Marulli, in quanto sacerdote, non poteva essere giustiziato se non dopo essere stato privato del Sacramento del Sacerdozio, motivo per il quale, prima dell’esecuzione, fu sconsacrato dall’allora Vescovo della diocesi di Penne ed Atri.
Alle ore 21:00 di domenica 17 luglio 1814, in Penne, nel Piano di San Francesco, contro il muro della chiesa di Santo Spirito (esiste ancora ad un incrocio di Viale S. Francesco in prossimità dell’omonima Porta e sul muro appare una lapide che ricorda l’accaduto) furono fucilati Domenico Marulli (28 anni), Filippo La Noce (31 anni) entrambi di Città Sant’Angelo e Bernardo De Michaelis (25 anni) di Penna S. Andrea.
I carnefici non ancora appagati per quanto avevano compiuto, sotto gli occhi increduli del popolo pennese inorridito, decapitarono i tre eroi. Mentre i corpi furono sepolti a Penne a cura e per umana pietà dei pennesi, la testa di De Michaelis fu portata a Penna S. Andrea e quelle degli eroi angolani, messe in appositi cesti, furono portate a Città Sant’Angelo ed appese presso la Porta Sant’Angelo all’ingresso del paese e lasciate lì fino a quando non si consumarono (nella piazzetta dell’Istituto Magistrale dove oggi si può vedere la lapide che ricorda l’eroico sacrificio). Tutti i familiari dei nostri martiri furono costretti dai soldati ad essere presenti sul posto e dovettero applaudire e gridare insieme all’allora Sindaco di Città Sant’Angelo Terenzi: “Viva il re” e questo anche nei giorni a seguire.
Michelangelo Castagna fu l’unico ad avere salva la vita.
Fonte:
Dai moti carbonari del 1814 all’Unità d’Italia – Il Risorgimento a Città Sant’Angelo.
A cura di Giancarlo Pelagatti – Soc. Cooperativa “Archivi e Cultura”
Quaderni dell’Amministrazione Comunale di Città Sant’Angelo
Note biografiche degli eroi Carbonari angolani
Approfondimenti bibliografici
A Città Sant’Angelo nel 1809 la prima loggia massonica d’Abruzzo.
L’Abruzzo vanta una storia centenaria in fatto di massoneria. A parte, infatti, le cosiddette “vendite carbonare” che ebbero esponenti di enorme rilievo quali Silvio Spaventa e Pietro Marrelli, curiosando nel sito ufficiale del Goi emerge che le prime logge (10) in Abruzzo si sono costituite ai primi del 1800. Particolare assai curioso è che la prima loggia ufficiale che risulta agli atti, è la “Scuola di Salomone” che venne costituita a Città Sant’Angelo (allora ancora in provincia di Teramo) esattamente nel 1809, seguita tre anni dopo, nel 1812, dai “Figli del Gran Sasso d’Italia” di Teramo dove, nel 1870, si costituì la “Melchiorre Delfico” che esiste tutt’oggi.
La provincia abruzzese che si segnalò per il maggiore dinamismo in passato è stata quella di Chieti con ben 11 logge: 5 nella città capoluogo (la prima, “Perfetta Unione”, nata nel 1813), 2 a Lanciano (tra cui “Fra’ Dolcino”, nata nel 1907, che esiste tutt’oggi) ed una ciascuna a Vasto, Ortona, Guardiagrele e Villa Santa Maria. Nove le logge che nacquero nella provincia dell’Aquila delle quali sei nella città capoluogo (la prima, nel 1813, fu gli “Amici della Virtù), e tre a Sulmona (la prima, nel 1813, fu la “Perfetta amicizia”). Oggi, le logge del Goi più numerose di “fratelli” attivi sono quelle di Pescara (che esprime la sede ed anche il leader del collegio circoscrizionale abruzzese) e L’Aquila la cui “Guglia d’Abruzzo” vanta una cinquantina di iscritti nonostante nel capoluogo esistano ben tre logge dell’Obbedienza di Piazza del Gesù che, in totale, vantano un numero superiore di “fratelli”.
Fonte:
Angelo De Nicola, Il Messaggero
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