Colèra:

malattia infettiva acuta, endemica o epidemica, causata da un vibrione (Vibriocholerae asiaticae, impropriam. noto come «bacillo virgola»), caratterizzata da violente scariche diarroiche, vomiti, crampi muscolari, arresto della secrezione urinaria e collasso.

In pediatria, c. infantile (più com. il lat. scient. Cholera infantum), sindrome gastroenterica caratterizzata da abbondanti vomiti acquosi e da diarrea profusa, d’aspetto liquido-sieroso.

Fonte: Treccani

La malattia si abbatté così violentemente che ogni genere di accortezze o precauzioni che dir si voglia, per arginarne la virulenza, vennero sistematicamente vanificate. Una sofferenza muta ed ineluttabile attanagliò duramente questo paese con il morbo che uccideva e la miseria che regnava; un paese con i suoi eterni vagabondi ed i suoi guitti, i suoi fremiti di libertà e la sua atavica rassegnazione. In quella occasione non si trattò soltanto della impossibilità di rivoltarsi contro la morte e la malattia; i personaggi da me incontrati nel dispiegarsi degli eventi, mostrano lo stesso atteggiamento anche nei confronti della società e dell’ingiustizia umana, che appare anch’essa voluta dal destino a cui non serve, quindi, tentare di ribellarsi.

Nudi sotto sudari di pezza, a volte ficcati entro fogne di sabbia e di sporcizia come una dolorosa catenaria di infelici, ormai in balia della morte, gemevano gli uomini attoniti, inutili e ormai senza più memoria del loro passato. Quadri come questo emergono quasi sempre, man mano che leggo le copie degli atti decurionali!

E pensare che ciò accadde in quel lontano 1855, quando si stavano seriamente ponendo le basi, in Italia, per l’unificazione nazionale!

Gli scrittori di memorie patrie, in verità, non hanno mai dato lo spazio dovuto alle conseguenze nefaste di questo terribile evento abbattutosi sui cittadini di Città Sant’Angelo. Essi, al contrario, si sono limitati a brevi e fuggevoli citazioni che, certamente, nei lettori non hanno mai reso l’idea dell’effettiva portata della malattia, già tristemente ad essi familiare sin dagli anni 1836/37 e, poi anche nel 1849 quando, sul litorale adriatico in modo particolare, mietè numerose vittime. Era chiaro che tutte le misure di sicurezza precedentemente adottate restavano in vigore, anzi, l’Intendente Commendatore Santo Roberti da Teramo, nel 1854, le ampliava ulteriormente presagendo, forse, quanto stava per accadere. Ma vediamo di cosa si trattava.

Intanto l’obbligo di massima pulizia nelle strade, curando che la macerazione dei lini si facesse seguire nei modi e nelle distanze prescritti dai Regolamenti di Polizia. Grande attenzione alle carni ed alla frutta: che fossero sane le prime e ben mature le altre e che non venissero lasciati vagolare per le strade “animali immondi” (porci tanto per capirci). Bisognava  poi evitare ogni intemperanza nel bere e nel mangiare, mantenendoin tutto ciò la debita frugalità. Vietato bere liquori di ogni tipo: “… i cibi malsani quali sono i poponi- (volgarmente melloni di pane) – i  (o melloni di acqua),- i cetrioli, le zucche, i peperoni, i fichi, le albicocche, le prugne, le petronciane -(volgarmente molignane), – i pomodori crudi, i faggiolini (sic!) ed altre civaie e le minestre verdi, ed usino per vettovaglie a preferenza le paste, il riso, le patate, la carne di bue in arrosto ed in allesso (sic!) e per frutta le pere, le mandorle, le pesche“. A tutto ciò aggiungasi una frenetica corrispondenza tra le nostre Unità Comunali e gli Uffici d’Intendenza di Teramo, proprio per l’inarrestabile precipitare degli eventi, ormai non più controllabili.

Tale malattia era ed è caratterizzata da violenti scariche diarroiche, vomito, crampi muscolari, arresto della secrezione urinaria e collasso. Soltanto nel 1883, sarà isolato il vibrione responsabile di Koch in Egitto, ma già il micrografo fiorentino Pacini nel 1854 lo aveva ben visto e descritto.

L’insorgenza di solito è brusca dopo un’incubazione che può variare da 3 a 6 giorni ma si possono avere dei prodromi sotto forma di diarrea accompagnata o no da dolori addominali. Il paziente si lagna di sete intensa e talvolta è colto da ripetuti singhiozzi. In taluni casi la morte sopraggiunge immediatamente sì da essere apostrofata con l’aggettivo “fulminante”.

Intanto un sovrano rescritto contenente le norme per garantire la pubblica salute, fu fatto recapitare al Sindaco di Città Sant’Angelo. Quattro erano i punti fondamentali:

1) Deve imporsi rifiuto ad ogni naviglio che abbia avuto traversata infelice.

2) Per l’Adriatico e per le provvenienze (sic!) dai luoghi infetti dell’Adriatico deve adottarsi la misura di cinque giorni di osservazione compresa la traversata.

3) Per le provvenienze dalle frontiere di terra non debbono ammettersi se i passaporti non sieno muniti col certificato che attesti godersi buona salute nel sito della partenza de’ viaggiatori, o che essi abbiano dimorato cinque giorni in sito sano.

4) Che in fine in qualunque dei casi accennati la corrispondenza debba rilasciarsi dopo essere stata sottoposta allo affumo.

20 agosto 1855

Lo stesso Sindaco Lindoro Baiocchi, invitava nella “Cassa del Comune” i signori D. Vittorio Gaudenti, arciprete della Collegiale Chiesa di San Michelangelo Arcangelo, D. Rocco Crognale decurione, D. Francesco Colella medico chirurgo, D. Francesco Sgaroni proprietario e D. Michele Castagna al fine di costituire una prima commissione e di istruirla secondo l’art. 3 del Regolamento del 24 settembre 1848 sulle assolute precauzioni da prendere per far fronte all’ormai imminente arrivo del male asiatico che già stava dilagando in Montesilvano e Castellamare.

30 agosto 1855

Primo caso di colera in Città Sant’Angelo: a rilevarlo senza alcun dubbio è il medico D. Michelangelo Castagna nella persona di Pasquale Giansante, contadino dimorante in campagna nella contrada del “Trocco”. Quella stessa notte nessun altro dottore, e sorvolo sui loro nomi, nonostante sollecitati, accettò l’ingrato compito di portarsi presso l’abitazione del povero Giansante.

31 agosto 1855

Colpita una certa Lucia Verzella più altri due individui e così fan quattro.

2 settembre 1855

La lista aumenta: altri sei tra uomini e donne. Solo qualcuno di essi si salverà; gli altri moriranno tutti in breve tempo.

4 settembre 1855

La commissione sanitaria di Città Sant’Angelo così comunica al Reverendo Padre della Chiesa dei Padri Riformati: “…questa città invasa da parecchi giorni dal Colera Asiatico nell’urgente bisogno di aprire un ospedale che accolga gli infermi di questo morbo, de’ quali non sia facile la cura nelle proprie case. E siccome questo stabilimento si desidera in un luogo acconcio e salubre, non dentro, né lungi dalla città, la Commissione non ha saputo proporre altro che il Convento abitato da lei e da Religiosi Riformati, secondo le disposizioni date da S.E. il Ministro Segretario di Stato, di Agricoltura e Commercio a 20 ottobre 1849. Si compiaccia dunque per la pubblica salute sgomberare immediatamente tutto o parte del Convento, nel primo caso avrebbe una casa di ricovero provvisorio per sé e  per i suoi confratelli, e nel secondo si provvederà in modo che loro non si rechi alcun disturbo“.

Apriti cielo per il povero Frate! Egli, non accettando neppure per sogno le proposte fattegli, finirà per ricorrere all’Intendenza che gli darà ragione, comandando di destinare i malati in altro loco.

Nel frattempo D. Emidio Coppa da una sua abitazione presso Silvi Marina, con un lodevole atto di generosità, fece dono al Sig. Presidente della Commissione di Città Sant’Angelo della somma di 100 ducati, per aiutare “…la classe povera…” falcidiata dal morbo.

Lodi e riconoscenza, dunque, per l’atto generoso e pio, che tanto onora il sentimento di carità cristiana. Preposto al compito di amministratore dei denari in quella luttuosa circostanza fu il Cassiere D. Francesco Castagna.

Il numero dei malati, però, aumentava sempre di più ed anche due membri della commissione vennero colti da malore che, fortunatamente, e lo si capì subito, non aveva niente a che fare con il colera.

Bisognava, quindi, scegliere due “persone probe” per assistere gli infermi poveri in tutte le necessità più immediate che questi avessero avuto, e non era impresa facile poiché cominciavano a verificarsi i primi casi di latitanza dalla città: Francesco Meletti, proprietario del pubblico caffè e Carmine di Zupito (sic!) (1) unico venditore all’ingrosso di vino, chiudevano baracca volgendo là dove forse l’oscura ferocia del “grande flagello” avrebbe potuto essere meno influente. Ciò non piacque a tanti poiché, ritenendo i medici indispensabile qualunque sostanza a base di alcool o anche di caffeina come elementi atti alla disinfezione, sembrò quasi un vile atto di codardia, la fuga dei due venditori, contro cui, comunque, furono presi dei severi provvedimenti.

8 settembre 1855

Ogni nuovo giorno è più insidioso e luttuoso del precedente. Il libro del bollettino sanitario locale rigurgita di un numero elevatissimo di decessi, tanto è vero che verrà mandato un messo in Penne per avere altri registri timbrati, essendo esauriti quelli a disposizione. Il paese è un po’ come quello dei disegni di George Grosz: interni di case dove si vede trapassare un uomo, due che camminano e non si reggono in piedi, altri che litigano furiosamente, mendicanti, prostitute, vagabondi laceri ed emaciati, morti di fame, tutti indaffarati a salvare la pelle come un’orda di miserabili stretti in una realtà ove il pianto dei morti si contrappone al delirio dei vivi. Giorno e notte vi è chi si adopera senza chiedere nulla in cambio per alleviare le altrui sofferenze, in campagna come in città, senza tregua. Un esempio lo offriranno l’Arciprete Jandelli (e non fu il solo) che di lì a poco, però, passerà senza speranza dalla parte delle vittime, e molti canonici ad iniziare dai due fratelli de Cecco per finire a D. Luigi Baiocchi, D. Francesco Petrucci e all’economo Curato D. Serafino Ranalli con altri ecclesiastici, addetti al servizio della chiesa che, al contrario dello sfortunato arciprete si salvarono tutti.(2) Solo qualcuno di essi non si presterà ” (…) o per vecchiezza o per paura “.

Nessuno toccava più de’ dolori altrui, tutti occupati ai propri, eppure come si seppe trapassato Vittorio Arciprete Jandelli ciascuno dimenticato i lutti suoi pianse sulla tomba del ministro di Dio (…) – (In morte di Vittorio Jandelli arciprete di Città S.Angelo – prose e poesie – Chieti – tip. dell’intendenza 1855).

Città Sant’Angelo era dunque a terra e pensò di chiedere aiuto a Pescara. Il sindaco di questa località promise che avrebbe cercato di convincere il Dott. Panzone (…unico disponibile…) affinché si recasse qui da noi, cominciando a scarseggiare perfino i medici, colti da malessere e paura.

Fu anche molto difficile reperire le mignatte per fare i salassi e allora ci si rivolse a Chieti che rispose prontamente e con efficacia ad un’urgenza del genere e di tale gravità.

11 settembre 1855

Pare che questa mattina il male presenti un poco di tregua: Iddio voglia che questa non sia apparente. Quello però che accresce l’onere dell’attuale situazione del Comune è la troppo riprovevole emigrazione di ogni maniera di persona e, quel che più importa, di molti Funzionari Pubblici, talché io comunque infermiccio sono rimasto solo a provvedere ai gravi bisogni della luttuosa circostanza. Le dichiaro queste cose con estremo rincrescimento del mio animo; ma nei tempi di sventura è debito non tacere il vero“.

In siffatto modo scriveva il nostro sindaco all’Intendente di Teramo, aggiungendo tra l’altro un disappunto per l’allontanamento del tutto arbitrario del farmacista D. Cetteo Seccia, quando in quel momento, più che mai c’era bisogno di lui. La massima autorità angolana così si esprimerà, poi, nel dipingere l’orribile realtà che falcidiava tutti senza pietà: ” la sventura di questo infelicissimo missiva al Sindaco di Città Sant’Angelo che, non avendo potuto il sinora non ha tregua: il cholera (sic) nulla rimette della sua ferocia; i casi si moltiplicano sempre; le perdite sono gravi; e lo squallore del paese è spaventevole per l’emigrazione ancora d’ogni maniera di persone. Io e questa commissione sanitaria facciamo ogni possibile opera per sollevare la miseria, e per non lasciare nessuno dei provvedimenti giovevoli alla Salute Pubblica. Le spese che si sostengono giornalmente sono straordinarie e immense…”.

Saranno, in verità, i privati cittadini a sostenerle animati da immenso ed encomiabile amore di solidarietà umana.

12 settembre 1855

Una seconda Commissione Sanitaria Comunale di Città Sant’Angelo composta dal Sindaco Presidente, dall’Arciprete di San Michele Arcangelo D. Vittorio Jandelli (naturalmente prima che egli stesso venisse contagiato dal morbo), dal medico Michelangelo Castagna, dal decurione D. Rocco Crognale e dal proprietario Saverio Confetti, riunitasi nella cancelleria del Comune per provvedere alle urgenze della salute pubblica, stabilì che forse si era ad una svolta risolutiva, nel senso che il morbo stava finalmente abbandonando la nostra città. C’era, però, un grave problema che assillava le menti dei commissari ed era costituito dal terrore dell’immediato ritorno di tutti coloro che erano stati latitanti o emigrati i quali, dopo essersi rifugiati ” quasi tutti nella spiaggia di Silvi in piccoli campestri abituri e viventi con disagio (sic!)…” avrebbero potuto risultare non essere fisicamente sani e, di conseguenza, contribuire a riaccendere quei focolai che tanti lutti e rovine avevano, solo qualche giorno prima, prodotto ai loro compaesani. Essendo però Silvi e Castellamare risaputamente luoghi infetti, venne disposto quanto segue:

1) Respingere tutti coloro che provenendo da tali località infette desiderino entrare in paese, respingendoli verso i lazzaretti.

2) I luoghi addetti al lazzaretto fossero il Casino dei Signori Coppa sito, all’epoca in contrada Creta Rossa (in quei pressi vi era anche un fondo della famiglia Nasuti) e la casa rurale del Reverendo Capitolo sita d’accosto alla Chiesa di Madonna della Pace.

3) La contumacia doveva durare 20 giorni.

4) Ogni porta d’ingresso al paese fosse presidiata da guardie.

5) Durante la permanenza nei lazzaretti, non dovessero essere negati i soccorsi e qualsiasi altro tipo d’aiuto agli infelici che, sventuratamente, sarebbero stati attaccati dal colera. Inoltre i Professori Sanitari si riservavano di tenere, essi stessi, la chiave del lazzaretto – Casino Coppa sito in contrada Creta Rossa.

Dunque medici, artigiani, contadini e proprietari di pubblici esercizi tutti pronti a tornare chi dalla spiaggia di Silvi, chi da Castellamare, ma il rischio è troppo alto, tanto più che nella stessa giornata del 12 settembre appunto, reduci da Spoltore due profughi, cioè Maddalena Carota e Vincenzo Rosselli, immediatamente caddero infermi e, nel giro di poche ore, nemmeno il tempo di una intera giornata, trapassarono senza neppure aver avuto tempo di compiacersi di essere tornati in patria. Alla luce di questo episodio, sia pure isolato, le precauzioni divennero di più larga portata e le attenzioni si moltiplicarono in particolare riferimento al come potersi muovere senza provocare danni.

Il Sig. Emidio Coppa, nel frattempo, in una lettera scritta al Presidente della Commissione Sanitaria locale, oltre a confermare la cessione dei suoi locali aventi funzione di ricoveri, pregava il Rev. Canonico Vannelli (da non confondere con Jandelli) di disporre che il mantenimento di tutti i poveri che prendevano alloggio nel suo sito di campagna andasse esclusivamente a suo carico. E fu questo un ennesimo atto di estrema nobiltà d’animo e grande generosità di un uomo cui le cronache che ne hanno tratteggiato il profilo, non si sono addentrate maggiormente a considerarne gli aspetti più squisitamente umanitari, anche se è risaputa la inappuntabile prodigalità che ha distinto, da sempre, la  sua famiglia.

13 settembre 1855

Non tutti gli urbani furono disposti a svolgere un servizio che li avrebbe costretti al contatto con i malati. Qualcuno, per pochi spiccioli, si prestava a tal genere di lavoro, forse perché rimasto solo e affamato come un cane. Nello stesso tempo in giro, corse voce che in Città Sant’Angelo, i cadaveri non venivano seppelliti. Fu il Sindaco Lindoro Baiocchi a dover dare delle spiegazioni all’Intendente facendogli presente che “nei giorni 8 e 9 essendo stato notevole il numero dei trapassati, tanto il trasporto che l’inumazione di essi andò un poco a rilento per la mancanza di aiuto; poiché non fu possibile accrescere il numero di sei uomini addetti all’apertura de’ solchi per l’interramento“.

Il Giudice Regio allora si rivolse al Sottointendente per aver qualche becchino di Penne ma la richiesta fu bocciata. Sempre nello stesso giorno, l’Intendente di Teramo respingeva la domanda di contumacia per i profughi inoltrata qualche tempo prima, facendo presente che “Le contumace non hanno mai giovato né per evitare la invasione del morbo né per diminuirne la intensità“.

Tanta fu, però, la paura in quelle circostanze che sembrava a tutti normale imporre la quarantena a chiunque avesse fatto ritorno a casa. C’è da dire che la situazione qui, a Città Sant’Angelo, aveva assunto aspetti davvero da incubo e i paesi limitrofi, nei quali molto meno cruento fu il dilagare dell’infezione, cominciarono a temere seriamente che qualche abitante angolano, potesse recarsi nel loro tenimento, per un qualunque motivo, e, di conseguenza, attaccare il male a quelle comunità. Un caso significativo, infatti, accadde nella Real Piazza di Pescara, quando se ne impedì l’entrata ad un corriere di Città Sant’Angelo ivi spedito per acquistare “limoni e mignatte”. Costui, data l’urgenza fu costretto a dirigersi a Chieti ove poté finalmente comprare ciò che gli era stato ordinato.

20 settembre 1855

La situazione, in linee generali, parve decisamente migliorata. Purtroppo tante e tante perdite fra cui la scomparsa dell’Arciprete D. Vittorio Jandelli della Chiesa di San Michele Arcangelo, che venne partecipata al Sig. Intendente della provincia secondo tale profilo: “…notissimo per le sue eminenti qualità morali ed intellettuali, il più operoso componente della Commissione Sanitaria, dopo essersi prestato con indescrivibile zelo (…) verso gli infelici confortandoli con soccorsi ed assistendoli con quell’abnegazione cristiana di cui sono veri esempi, attaccato dalo colera la sera del giorno 13 cessò di vivere nella notte del 18…”

22 settembre 1855

Il paese, nonostante visibili segni di ripresa e la buona volontà di tutti, continuava a mantenere un aspetto desolante. Apparentemente svuotato non poteva certo nascondere i lamenti di chi, ormai perduto, si abbandonava a lugubri cantilene o di altri che, senza più famiglia, vagavano impazziti per le vie della città.

Bambini laceri e sozzi piangevano convulsamente le madri e i padri deceduti, negli interni dei grandi o dei piccoli portoni, dietro le cisterne o al buio, sotto una qualche scalinata.

Essi videro passare chissà quante volte i carri della morte che sferragliavano nella loro corsa verso il cimitero. Carri pieni di cadaveri ammassati e dondolanti, dalle bocche spalancate e dai profili affilati e chissà quanto ne rimasero sconvolti!

25 settembre 1855

La provincia stanziò 30 ducati per aiutare “…le desolate famiglie…” del nostro comune mentre molti privati si tassarono per contribuire, come potevano, al sostentamento di quella povera gente. Se diamo uno sguardo agli specchietti che seguono capiremo meglio. Limoni e mignatte vennero acquistate questa volta in Pescara che, nel contempo, aveva ricevuto ordine di trattare, finalmente, con i nostri corrieri.

I sanguigni animali si reperivano in abbondanza nei pressi del fiume Pescara e, come ben sappiamo, sino a non molto tempo fa, li si impiegava per i salassi: ecco perché ce n’era bisogno quando qualunque altro sistema per “spurgare il sangue infetto” era da collocarsi su un piano, se mai, d’avveniristica ipotesi scientifica.

12 ottobre 1855

Riunitasi la Commissione Sanitaria, all’unanimità giudicò prematura qualunque dichiarazione di ritrovata sanità e convenne intanto di doversi ” (…) far onorevole menzione di tutti quei filantropi cittadini, Ecclesiastici. Medici, Impiegati nell’Amministrazione Comunale che si sono personalmente prestati in tal frangente (…)”. Vennero quindi fuori molti nomi. Un bell’esempio ne diede D. Tito de Cesari, Cancelliere provvisorio, che mai abbandonò il Sindaco, avendolo spesso assistito anche nelle ore notturne, cooperando con lui per il buon servizio della causa pubblica e D. Domenico d’Anastasio, uno dei primi a restare fatalmente vittima del morbo ed ex compagno di scrittoio dello stesso de Cesari. Ma non è finita!

La luminosa figura dell’Arciprete Jandelli, come abbiamo già detto, e dei Canonici Don Michele e don Santo de Cecco, D. Francesco Petrucci, D. Luigi Baiocchi, gli unici che somministrarono i Sacramenti ai bisognosi, sin dal primo apparire dei nefandi sintomi, don Giovanni Vannelli, il Curato don Serafino Ranalli. Per quanto riguarda poi i medici uno su tutti: Don Michelangelo Castagna. Egli accorse là dove nessun altro si sognò mai d’arrivare, con protervia e risolutezza, dichiarandosi disposto persino ad offrire i propri alloggi per ricoverare alcuni tra quei poveri sciagurati.

Seguono don Gaetano Ranalli, D. Rocco Crognale, D.Michele Petrucci e D. Pasquale Castagna che furono i soli con zelo e prontezza “… a prendere parte attiva alle delicate operazioni” (anche se qualcuno di essi preferì, poi, la latitanza, da quel che risulta).

Una nota di merito andrà anche ai serventi comunali anch’essi operosi nello scrupoloso compimento degli ordini ricevuti.

13 ottobre 1855

Scrive così il Sindaco al Sottointendente:

Signore,

…apprenderà che il morbo lungi dallo svanire pienamente si va piuttosto aumentando, comunque questo aumento sia quasi insensibile. Ieri quattro furono gli attacccati e fra questi ebbe luogo un caso di colera fulminante. Ciò ha cominciato a rianimare la credenza al maleficio, non mai per altro abbandonata del tutto; e già corre voce che, compiuta la vendemia (sic!), il male tornerà ad inferocire, rinnovandosi le scene luttuose e spaventevoli del mese di settembre. Ho detto queste cose a Lei, acciò si compiaccia in qual modo stimerà migliore provvedere alla tranquillità di questo Comune, prevenendola che andrò a pregare il Sig. Intendente e il Sig. Generale Comandante le Armi della Provincia di far rimanere il distaccamento del quarto di linea che secondo le superiori disposizioni già comunicate dovrebbe rientrare alla Real Piazza di Pescara nel giorno 16 del corrente mese“.

E così sarà. Proroga accordata agli uomini d’arme sino a tempo indeterminato anche se, in un secondo momento, arriverà un contrordine per cui i militi rientreranno in Pescara entro il giorno 17.

20 ottobre 1855

Solo in questa data e, per la verità, a bandiere spiegate, è da ritenere completamente scongiurata qualsivoglia minima recrudescenza dell’infezione e ritrovata la salute pubblica (3). Seguono lettere di felicitazioni pervenute dai vicini paesi che ben conoscevano ed avevano temuto non poco, la ferocia con cui il virus aveva attaccato la nostra povera cittadina.

Teramo, Silvi, Castellamare, Pescara ed Elice sembrarono così uscire esse stesse da un incubo forse peggiore del nostro, quando si ripristinarono i regolari commerci sia tra di loro che con la nostra Amministrazione.

25 ottobre 1855

Anche la Gendarmeria Reale qui stanziata riceve un solenne encomio per essere stata sempre vigile ed operosa nel periodo cruciale, e, in particolar modo, si fa menzione del Sergente D. Erminio de Virgiliis “…il quale indipendentemente dalla vigilanza per tutela dell’ordine, si è prestato ad ogni richiesta della Commissione…”.

All’inizio di ottobre, cessate le “ostilità” i signori medici di Città Sant’Angelo chiederanno giustamente “…un guiderdone alle nostre strabocchevoli fatiche…” e per ottenerlo ricorderanno “…con quanto abbandono ci mettemmo a soccorrere il nostro simile che quasi peccammo di mancanza di carità verso noi medesimi. Dei Malati n’erano un buon migliaio nessuno rimaneva senza medico, così che né il giorno, né la notte avevamo un’ora con noi“.

Si trattò di una legittima pretesa di compenso sottoscritta da:

• D. Michelangelo Castagna dott. fisico

• D. Rocco Crognale, medico chirurgo

• D. Pasquale Castagna, medico fisico

• D. Gaetano Ranalli, medico chirurgo

• D. Michele Petrucci medico condotto

18 novembre 1855

Così si espresse l’Intendenza della Provincia sulla precedente richiesta:

La Commissione Sanitaria non può coscenziosamente negare che i summenzionati Professori Sanitari si cacciarono volentieri e con abbandono veramente cristiano in mezzo al terribile morbo e furono sempre operosi e solleciti. E siccome l’opera da loro prestata deve ritenersi straordinaria e pericolosa, così ritiene affatto giusto il compenso domandato. Essa però per talune particolari ragioni non entra a determinare il valore del compenso medesimo, rimettendo tutto alla giustizia del Superiore. Solo si fa ad osservare, che non tutti hanno diritto alla stessa uguale retribuzione, poiché D. Pasquale Castagna prestò servizio per soli 8 giorni, per malattia sopravvenuta; D. Luigi Colella per soli 6 giorni essendo stato costretto a lasciare questo comune e D. Gaetano Ranalli comunque avesse servito senza interruzione, non può meritare quello degli altri trovandosi medico condotto del Comune. Solamente D. Michele Petrucci, D. Michelangelo Castagna e D. Rocco Crognale furono continui, indefessi e sempre operosi, durante l’epidemica ricorrenza, dal suo principio 30 agosto sino alla fine di ottobre.

30 novembre 1855

Abbiamo visto come i professori addetti alla pubblica salute avessero chiesto compensi per l’opera prestata durante il dilagare del male. Alcuni di essi, però, restarono a bocca asciutta per motivi che cercherò di sintetizzare, desumendone il contenuto da una lettera pervenuta e sottofirmata dall’Intendente di Teramo, al Sig. Sindaco di Città Sant’Angelo. In essa si legge che nessuno tra i richiedenti avrebbe dovuto ricevere quanto inoltrato in quelle domande, per alcune semplici ragioni:

la prima è l’aver già l’Amministrazione dovuto assoggettarsi alla spesa non trascurabile di 80 ducati per destinarli ad un medico fatto venire dalla vicina Pescara per aiutare i colleghi locali non sempre in numero sufficiente a prestare i loro servizi, ininterrottamente, come il caso richiedeva. Poi è da tener presente che alcuni tra questi ultimi: ” o non si prestarono affatto, come quei due, che dopo sei  l’uno, cioè D. Luigi Colella, e dopo otto giorni l’altro, cioè D. Pasquale Castagna, o si prestarono a stenti come tutti gli altri che restarono costà“. Inoltre i Signori Ranalli e Crognale essendo medici condotti a servizio del Comune, erano da questo ben remunerati e comunque avrebbero dovuto ricordare che tra i doveri dei medici, al momento della laurea, vi era l’obbligo morale di assistere gratuitamente la “poveraglia…“. “…Si facessero, dunque, pagare dalle famiglie ricche cui hanno prestato la loro opera ” ammonì l’autorità competente.

La seconda ragione riguarda, al contrario, una giustificatoria nei confronti di D. Michele Petrucci e D. Michelangelo Castagna, i quali  senza imitar qualcuno che per lo spavento desistette dal prestarsi, ed abbandonò il Comune, restaron fermi e concorsero nella emergenza del Cholera (sic!) troppo dolorosa per cotesto disgraziato Comune“. Ebbene, secondo l’Intendente solo costoro avrebbero avuto tutte le buone ragioni per certe pretese di ordine economico, poiché furono effettivamente gli unici due intemerati ed instancabili sostenitori morali prim’ancora che professori di quei poveretti che andavano spegnendosi precipitosamente tra le loro braccia. E non solo ciò avrebbero avuto diritto di chiedere, quanto e soprattutto contributi da famiglie agiate che, certamente, non glie li avrebbero negati. Tali furono i punti essenziali richiesti nella lettera dall’Intendente ai componenti la Commissione locale; punti che finiranno tutti  per essere pienamente soddisfatti. Il Castagna ed il Petrucci  riceveranno 15 ducati a testa come era giusto che fosse e, da quel momento, si iniziò davvero a guardare in avanti per una rapida ripresa e fiducia nel domani.

Si racconta, tuttavia, ancor oggi, che tali e tante furono le vittime del morbo asiatico in Città Sant’Angelo da costringere talora i becchini ad un disumano “tour de force” nel momento in cui non facevano neppure in tempo ad arrivare al cimitero per seppellire i cadaveri che, tosto, dovevano ritornare a monte per prelevarne altri, anche nelle ore notturne.

Casi di colera isolati si verificarono, tuttavia, anche nella seconda metà del secolo scorso, in Città Sant’Angelo, senza però assumere forme veramente preoccupanti. Nel novembre 1866, ad esempio, il farmacista D. Gaetano Desiderio di Città Sant’Angelo, dové recarsi nel tenimento di Villa Cipresso in contrada Cerretti “…a disinfettare e fumigare gli individui della casa di Labrecciosa morto nella notte del 10 con sintomi di Cholera (sic!)”. Ma vediamo in dettaglio cosa accadde realmente in tal frangente. Intanto si ingenerò, dappertutto, una grande paura che il morbo potesse, a distanza di undici anni, tornare a dilaniare una popolazione non ancora dimentica di quegli orribili momenti vissuti. Per tale ragione il 10 novembre 1866, riunendosi la Giunta municipale in seduta straordinaria, deliberò ad unanimità di voti due provvedimenti cautelativi di rigoroso rispetto:

1) ” Addirsi le due botteghe sotto la casa del sig. Desiderio (noto farmacista) a Porta Sant’Angelo, la prima a camera di fumigazione e la seconda a provvisorio secondo Corpo di Guardia Nazionale. Eseguirsi le fumigazioni alle persone e gli oggetti giusta lo stabilito nel ridetto verbale della Commissione di Sanità. A quale oggetto rimane delegato il Farmacista Sig. Gaetano Desiderio, il quale provvederà a tutti gli oggetti, droche ed ingredienti per i suffumigi e per le disinfestazioni che saranno da lui eseguite e, nel bisogno, anche dall’altro Farmacista Sig. Seccia Cetteo. Oltre a tal incarico il suddetto Sig. Desiderio sorveglierà esclusivamente la suddetta Porta Sant’Angelo e riferirà gli inconvenienti che vi potessero avvenire nel rincontro “.

2) ” Provvedere alla nettezza generale di tutte le strade e i vichi di questo abitato, precisamente a quella delle stalle e de’ letamai, per lo che resta incaricato, col Guardia Municipale Ludovico de Laurentiis, Michele d’Angelo, il quale sorveglierà gli spazzatori delle strade e dei vichi, esaminando le stalle e i letamai e curando la nettezza di essi. E comeché (sic!) la Strada del Corso dal punto della Porta Sant’Angelo al palazzo dei Sig. Zuccari, non ancora inselciata, in moltissimi punti è rovinata presentando degli avvallamenti ove le acque e le immondizie si adunano, così ha incaricato il suddetto Ludovico de Laurentiis  Guardia Municipale  di far prontamente eseguire detti accomodi sulla strada in parola provvisoriamente con breccia sgretolata, che verrà tolta con carri nella Cava sotto il Convento de’ soppressi Minori Riformati; farà ancora colmare di calce viva le due cloache sotto la casa dei Signori Vannelli, che danno fetore, e quindi farle chiudere a mattoni“(4).

E molti furono i casi di decessi nelle nostre contrade cadendo l’anno 1861, a causa di tale epidemia.

Anche in questa occasione e dopo aver riflettuto bene su tali provvedimenti, emergono nuovi elementi soprattutto di carattere urbanistico, alcuni dei quali, già trattati, trovano qui conferma in modo più netto ed inequivocabile. Inoltre spesso e volentieri, si ha la sensazione di ricondursi ad una realtà paesana fondamentalmente acquitrinosa, umida, sudicia, puzzolente e non c’è da meravigliarsi più di tanto se i fatti ne testimoniano continuamente la veridicità.

Del resto, era così ovunque, anzi, se dovessimo, ad esempio, parlare di Montesilvano e Pescara, in ordine a tale argomento, resteremmo quasi pietrificati ed increduli per la sozzura e i fetori che in esse imperversavano in quanto località semipaludose.

Secondo una stima dei medici Castagna, Crognale, Colella, e Ranalli, nel decennio che venne subito dopo il 1855, le malattie più diffusamente infettive erano rappresentate dalla scarlattina, dal tifo e da terzane intermittenti (5).

Il Colella, ad esempio, facendo il punto della situazione, rilevava dei dati a proposito, rendendo trasparenti le modalità con le quali si dovevano combattere tali infezioni ed elencando il numero degli individui colpiti. Così recitano alcuni tra i passaggi più significativi del suo resoconto:

La scarlattina che da più tempo domina epidemicamente, non lascia d’infierire in questo Comune sotto le forme più svariate e micidiali associandosi alla febbre nervosa. Messo a calcolo il genio maligno della costituzione epidemica dominante per la quale anche i morbi comuni assumono in quest’anno il carattere maligno (come si osserva assai di frequente tanto per le febbri continue gastro-reumatiche che si tramutano in tifoidee, quanto per le intermittenti semplici genuine che passano a perniciose) io son di credere, che qui tra noi non poca parte tenga alla malignità dei morbi ricorrenti il fomite straordinario di malefiche influenze locali in mezzo a cui viviamo e per le quali la scarlattina ( già benigna per se stessa com’io osservavo in coloro che si trovano fuori di quelle influenze) si rende segnatamente fatale tra la gente di contado che vive nella strettezza e nella negligenza, e più che altrove nei rioni popolosi dell’abitato, ove l’assembramento, la miseria, la poca nettezza delle case, della persona, e dei vicoli, sono cagione sufficienti allo svolgimento di miasma per sé solo produttore di morbi gravissimi e micidiali “.

Seguono norme di cautela e raccomandazioni per i cittadini:

1)  Innanzitutto si dia il più che si può, sussidio di vitto, di medicinali e di biancheria a chi posseduto da infermità languisce nella strettezza e nel bisogno.

2) Si provvegga alla nettezza delle strade e delle case, ordinando sotto pena di multa di non versare, sulle prime, acque immonde ranni ed altro di simil genere, e di non far rimanere per lungo pezzo accumulato il letame entro le stalle, o nelle pubbliche vie.

3) S’invigili più accuratamente nel Carcere e nell’Ospedale tanto per la nettezza che per la bontà del vitto.

4) E finalmente massima vigilanza sulla qualità dei viveri che si vendono pubblicamente, badando soprattutto alla bontà del pane, delle carni, del pesce e della frutta.

Brevi appunti, infine, sull’elenco delle infermità curate dallo stesso scrupoloso ed attento relatore che non mi sembra il caso di riportare.

La sporcizia, dunque, doveva essere tanta che, senza ombra di dubbio, costituiva veicolo di trasmissione di virus più svariati fra i cittadini di Città Sant’Angelo e, spesse volte, si moriva senza sapere come e perché. Il tifo petecchiale, ad esempio, non lasciava scampo alle vittime come ci riferisce il dott. Luigi Colella:

“… che tra i morbi ricorrenti, e che sono molti e diversi, cioè gli intermittenti di tutti i tipi; la scarlattina benigna e le gastriche febbri reumatiche infiammatorie; vi è pur l’altro che incute paura, cioè il Tifo, che ora è semplice ed ora è accompagnato dagli Esantemi Petecchiali e Scarlattina con la morte certa di coloro che vengono dalla stessa attaccati

E molti furono i casi di decessi, nelle nostre contrade cadendo l’anno 1861, a causa di tale epidemia.

Vorrei ricordare, infine, come quest’ultimo colpo di coda, sia pure isolato che ebbe il colera, tanto impressionò la cittadinanza che il Consiglio Comunale dispose la costruzione di tre nuove porte, in legno di rovere, con le quali chiudere i punti d’accesso al paese, rimasti sguarniti “…da moltissimi anni addietro…”. Si tratta di Porta Sant’Egidio, Porta Borea e porta Sant’Antonio. Dunque, se ne deduce che, almeno per un certo tempo, entrare od uscire dal centro abitato era alquanto semplice e che, in conseguenza di una nuova possibile infezione, si provvedesse ancora una volta a ricostruire una possibile cerniera muraria che obbligasse chicchessia a sottoporsi a controlli sanitari.

Dal maggio all’ottobre 1866, quindi, vennero ripristinati certi meccanismi di difesa e prevenzione di carattere urbanistico. La spesa complessiva per realizzare le suddette porte, ex novo, ammontò a £. 1056 che andarono nelle tasche dei maestri fabbricatori falegnami Cortellini, Terra e Natale e dei maestri ferrai Valloreo, Valentini e Roselli.

Note:

(1) Si tratta di Di Zopito. I Di Zopito, all’epoca venivano chiamati e regolarmente registrati con due cognomi. “Di Zopito  – Cacciavino”  perché erano cantinieri e cacciavano appunto vino dalle botti.

(2)  Molti scriveranno di Vittorio Jandelli parole ricche di devozione ed elevato senso di carità che ne distinguevano la sublime ed amorevole figura. Egli muore all’età di 41 anni e così lo ricordano due tra i suoi più cari amici: Gabriello Cherubini e Pasquale Castagna, in alcuni frammenti della loro prosa.

Affranto da lunghi e fatichevoli esercizi del corpo, logoro da difetto di sonno e di regolare cibo, ammorbato da aere pestifero, fu preso violentemente da Cholera. Ed egli che aveva veduto tanti da questa vita trapassare all’altra fra l’acerbezza dei dolori, ed i più strani contorcimenti delle membra, punto non si sbigottì del grave pericolo che si dappresso gli sovrastava, e fu udito solamente rammaricarsi del non potere dell’opera sua soccorrere i miseri colpiti dal reo contagio…”

(alla memoria dell’Arciprete Vittorio Jandelli – Gabriello Cherubini dal Polirama Pittoresco. Anno XVII n.49 e 50).

“(…) E’ morto in Città Sant’Angelo un sacerdote raro di virtù cristiane e civili. Il paese per temibile peste attaccatasi in esso, si era empito di affanno, di morte, di cordoglio: a nessuno toccava più de’ dolori altrui, tutti occupati ai propri, eppure come si seppe trapassato Vittorio Jandelli ciascuno, dimenticati i lutti suoi, pianse sulla tomba del Ministro di Dio (…)”

(In morte di Vittorio Jandelli arciprete di Città Sant’Angelo – prose e poesie -Chieti -Tip. dell’intendenza 1855).

(3)  Ciò è quanto affermano le cronache comunali. Il libro dei morti rifererentesi al periodo in questione, è di un altro parere: in novembre, infatti, si verificheranno altri due decessi e poi sì che sarà tutto concluso!

(4)  Di questa cava piena di breccia, sotto l’attuale chiesa di Sant’Antonio, nei giardini pubblici, nessuno ha mai parlato, mentre io ritengo, al contrario, la notizia di indubbio interesse urbanistico.

(5) Le terzane erano febbri intermittenti.

Fonte:
Marco e Gherald Castagna

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