Strada del Ghetto, probabilmente dall’editto del 1427 della Regina Giovanna II che ordinò la segregazione degli ebrei in un’unica strada.
Nel più antico nucleo abitativo di Città Sant’Angelo, il Casale, dove oltre ad alcuni edifici di rilievo come palazzo Coppa e il medievale palazzo Colantoni, troviamo una via denominata Strada del Ghetto. Sono state diverse le ipotesi sul toponimo di questa via tra cui un’alterazione di Borghetto per via della sua modesta estensione. Ma recenti studi evidenziano documenti che attestano la presenza di una comunità ebraica a Città Sant’Angelo e in Abruzzo.
Approfondimento a cura di Lorenzo Valloreja
Città Sant’Angelo, come molti altri Comuni abruzzesi, ospitò, in quel lasso di tempo che va dal Basso Medioevo a tutto il Rinascimento, una folta comunità ebraica. Infatti, da testimonianze storiche e documenti d’archivio, sappiamo che i figli d’Israele erano presenti ad Aterno, nei pressi di Pescara, fin dal lontano 1062, tant’è che l’antica Chiesa di Santa Gerusalemme, i cui resti si trovano nelle vicinanze dell’attuale Cattedrale di San Cetteo, fu originariamente una Sinagoga. Un altro nucleo molto più importante risiedeva invece a Lanciano già dal 1156, così come vi erano comunità giudaiche nelle città dell’Aquila, Sulmona, a Pianella. Queste presenze erano giustificate dalle opportunità lavorative che l’Abruzzo dell’epoca offriva ai “giudei”. A norma di legge infatti, essi, non potevano in alcun modo professare nessuna professione al di fuori di quella di tessitore, conciatore e medico e non potevano, in ossequio alla vecchia norma di Tedosio II (438 d.C.) neanche accedere a qualsiasi carica pubblica, ivi compresa quella di fare il soldato o diventare proprietari di immobili, pertanto, non restavano loro che poche attività, tra queste vi era quella di prestare il denaro ad interesse: l’usura, pratica, quest’ultima, che, invece, era tassativamente proibita ai cristiani. A tal riguardo è da considerare che, durante tutto il periodo storico della transumanza, Città Sant’angelo, per la propria posizione geografica, è stata sempre luogo di grandi scambi commerciali e di conseguenza anche terra di grandi possibilità economiche. Fu polo d’attrazione di una immigrazione proveniente soprattutto dall’asse che da Amatrice, attraverso la via degli Abruzzi ed il susseguente “Tratturello”, portava le genti al di là dei Monti della Laga fin giù alle spiagge dell’Adriatico, ove si ricongiungevano ed accavallavano prima all’antica via romana Caecilia poi al “Tratturo Magno” ed infine alla via Antoniana che, costeggiando il “golfo di Venezia”, conduceva alle grandi fiere di Recanati verso nord ed a quelle internazionali di Lanciano verso sud. Insomma “terra” fertile per cambiavalute e chiunque altro potesse offrire servizi finanziari.
Nel regno di Napoli il vivere quotidiano per i figli di David costituiva una condizione molto altalenante ma, tutto sommato, le norme blandamente applicate per una forte presenza della corruzione garantivano, rispetto ad altri paesi europei come ad esempio la Spagna, una relativa quiete e stabilità. Spesso e volentieri erano gli stessi sovrani che facevano di tutto per accaparrarsi i servigi di questi scaltri mercanti e ricchi banchieri. Tra il 1217 ed il 1221 la penuria di capitali spinse gli ebrei ad occuparsi sempre più di attività creditizia, ma questa volta al servizio dei consumatori e non dei produttori. Incapaci di ottenere quei prestiti le classi più povere accrebbero per questi usurai un odio ancor più profondo di quello che era stato instillato loro dalla Chiesa, rafforzato dagli altissimi tassi applicati, legalizzati da Re e Principi. Nel meridione i Re e le dinastie si succedevano, ma l’apporto degli israeliti era sempre fondamentale, così come fu per gli Angioini che tra il 1290 ed il 1294 si servirono dei figli di Abramo per applicare una politica vessatoria nei confronti delle popolazioni autoctone portando queste ultime al massacro dei “giudei” (possibili gabelloti) a Napoli dove ancora oggi permane una via con un nome a ricordo di quell’agghiacciante episodio: “Scannagiudei”. Tanto fedele ed efficiente servigio andava premiato e così nel 1400 Ladislao I, Re di Napoli, emanò il seguente diploma: «Sia lecito ai giudei, nelle parti in cui abbiano eletto stanza … avere scuole, sepolture e cimiteri propri, non li si costringa contro la loro volontà a portare alcun segno distintivo, possano acquistare e mantenere beni stabili, non li si possa denunciare o accusare né civilmente né penalmente se non dinnanzi al capitano regio». La Regina Giovanna II, invece, nell’agosto del 1427, bisognosa di servigi finanziari sia per il fisco regio che per la popolazione, permise che gli ebrei prestassero denaro su qualsiasi pegno in ragione del 45% all’anno. Così facendo l’odio crebbe non solo tra la popolazione minuta ma anche tra i rappresentanti delle varie Università. A riprova di questo risentimento montante ci sono pervenuti diversi documenti: il primo riguarda un’assise pubblica dell’Università di “Interamnia” (attuale Teramo) datata 25 luglio 1440 la quale vietò ai macellai ed a tutti i cittadini di vendere o far vendere agli ebrei, abitanti a Teramo o fuori, le carni bovine e pecorine; il secondo è un atto notarile dell’estate 1447 dove si dice che sulla montagna di Genca non potevano pascolare gli animali e le pecore degli ebrei; il terzo ed ultimo è una pergamena datata 8 giugno 1448 rogata dal notaio Daniele Colucio di Città Sant’angelo e conservata presso l’archivio Comunale di Teramo, nella quale si dice che gli ebrei Simeone, Tristano e soci di Matera venivano multati perché facevano pascolare indebitamente bovini nel territorio teramano di Colonnella e in altri luoghi dell’Abruzzo Ultra.
Ma quali sono le prove concrete da me rinvenute sulla presenza degli ebrei a Città Sant’Angelo?
5 prove concrete
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Partiamo innanzitutto da alcune osservazioni toponomastiche: Innanzitutto in località Congiunti, vicino Città Sant’angelo, nei pressi del fiume Fino, vi è un luogo denominato Coenne o Coen che dir si voglia, mentre ad Atri vi era una località rurale denominata, fin dal 1662, Colle Giudeo. Quest’ultima forse doveva essere il pallido ricordo dell’ordinanza di Re Federico III che, il 23 luglio 1312, impose agli ebrei di abitare, senza confondersi, fuori delle mura della città; tale ordine fu, tra l’altro, subito rinnovato da Re Martino I. Allo stesso modo in Città Sant’angelo, in uno dei quartieri più antichi denominato il Casale, esiste da sempre una via denominata “Strada del Ghetto”, sulla quale sono state fatte le più disparate supposizioni, ma che per quel che mi compete è da ritenersi assolutamente un “reperto di archeologia giuridica”, cioè una rimanenza dell’editto della Regina Giovanna II la quale, il 3 maggio 1427, ordinò la segregazione degli ebrei in un’unica strada. Questa strada, poi, si trova in linea d’aria a circa 60 metri dalla Chiesa di Sant’Agostino, tempio, quest’ultimo, che ospitava la confraternita di Santa Monica preposta proprio alla conversione degli ebrei.
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A livello statistico, studiando i registri parrocchiali mi sono reso conto che nel decennio 1535-1545 gli abitanti di Città Sant’Angelo quasi triplicarono, mentre sappiamo che dopo 40 anni dalla data della distruzione totale del borgo, ad opera di Federico II e precisamente nel 1279, la città di “San Michele Arcangelo” contava 600 abitanti, la metà esatta di Atri, meno dei 950 di Loreto Aprutino e in egual numero con quelli di Campli, e che tale resterà più o meno per ben altri due secoli e mezzo. Una crescita, quest’ultima, che non si spiega diversamente se non con il flusso e l’inglobamento cospicuo di immigrati o con l’integrazione di una o più comunità che per varie ragioni, politiche o religiose, non venivano registrate. Tra queste vi erano di sicuro gli ebrei per i quali, anche se, ancora oggi, è difficile avere una cifra esatta riguardo la loro consistenza numerica in quanto, non essendo cattolici non erano iscritti ne nello “Stato Animarum” ne negli altri registri parrocchiali e quindi non contemplati. Tuttavia si tenga presente che il numero degli ebrei in tutto il Regno di Napoli era indubbiamente consistente perché nonostante l’ordine di espulsione del 1492 dalla Spagna, Ferdinando I il Cattolico, il 10 maggio 1507, ordinò che non fossero molestati indebitamente nell’Italia Meridionale. La comunità giudaica, a seguito di questo favore però, versava allo Stato un canone annuo per soggiornare ed effettuare i propri affari al tasso del 25%. Forse questa tassa non fu ritenuta sufficiente e nel 1510 si ebbe lo stesso un primo blando provvedimento di espulsione che anticipò di 30 anni il vero e proprio esodo degli ebrei dal Vicereame che nel 1541 dovettero abbandonare il Sud Italia a meno che, questi ultimi, come già ebbero a fare in tanti altri luoghi e tempi diversi, non si convertissero e quindi riuscissero ad entrare a pieno titolo nella vita sociale e politica delle città che li ospitavano. E guada caso ciò è avvenuto proprio all’interno del decennio preso in considerazione: 1535 -1545.
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La terza prova l’ho ricavata da “Gli ebrei in terra di Bari durante il Viceregno spagnolo”, un saggio di ricerche archivistiche curate da C. Colafemmina e G. Ribenedetto, nel quale si riferisce degli ebrei baresi Angelo Zizza e Salomone creditori dell’Università di Acquaviva e dei Duchi di Atri. Questi due cognomi, Salomone, Zizza o Zizzi, che dir si voglia, li ho ritrovati sempre in tutti gli atti parrocchiali della Collegiata di San Michele Arcangelo tra il 1600 ed il 1742, nonché in tantissimi atti notarili che riguardavano l’Università angolana, la città di Penne ed altre località importanti dell’Abruzzo. In buona sostanza, secondo me, le famiglie Zizza e Salomone, avendo dei grossi interessi con i Duchi d’Atri, avevano trapiantato nelle vicinanze di “Hatria”, quindi in Città Sant’Angelo, dei loro consanguinei per meglio perorare la loro causa.
Stemma gentilizio di Carlo Zizza ricostruito da un sigillo apposto su di un atto rogato a Città Sant’angelo nel 1688 dal notaio ambrogio Battinelli. tale documento è rintracciabile presso l’archivio di Stato di Pescara – Busta 330 p. 43.
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Un’altra prova sulla presenza di usurai nel circondario Atri – Città Sant’Angelo l’ho scovata nei regesti dell’archivio Capitolare di Atri dove alla data 22 marzo 1602 si legge che Don Gabriele De Sanchez de Luna, regio Cappellano maggiore di Napoli, presenta al Re la richiesta dei Governatori del monte di Pietà di Atri, per cui alcuni partitori del luogo, per zelo di carità, deliberarono di istituire un Monte della Carità, a favore dei poveri che volevano dare a pegno i mobili per sopperire ai propri bisogni, depositando per questo una somma di denaro, ed ora chiedono, oltre l’assenso regio, l’applicazione dei regolamenti analoghi a quelli vigenti sul monte della Carità di Napoli ed in data 28 settembre 1602 Francesco di Castro, luogotenente e Capitano Generale di Filippo, Re di Spagna e di Napoli, concede di erigere in Atri un Monte della Carità in dipendenza del già esistente Monte di Pietà, allo scopo di evitare l’usura e venire incontro ai poveri che non possono accedere al Monte di Pietà per l’elevato costo di denaro, dando così loro la possibilità di non pagare alcun interesse sui prestiti di piccole somme, stabilendo i Capitoli per il funzionamento del monte analoghi a quelli del Monte della Carità di Napoli approvati il 27 giugno 1548, dal Vicerè Pietro di Toledo, decretando che le liti future tra ufficiali del monte di Atri e i debitori siano da dirimere dal Capitano della Città ed i beni pignorati siano da vendere con requisizione extra giudiziale.
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La prova più evidente sulla presenza, in passato, di una comunità israelitica nel quartiere del Casale ci è data dal Catasto Onciario, dove nella rivela del 7 novembre 1742 ad opera della Cappella di Santa Monica viene enunciata la voce: «Per elemosine alli ebrei fattisi Cristiani, venuti alla Santa fede, ordinati da sua M., che dia grani annui 14 ». Una simile iniziativa non era un caso isolato. In altre città abruzzesi, dove gli ebrei erano residenti da tempo immemore, furono fatte offerte equivalenti. Nel 1732 l’arcivescovo Ciccarelli di Lanciano fece raccogliere una piccola somma, 0=02 per ebreo diventato Cristiano che si trovava, a quel tempo, in grave difficoltà. In seguito, come risulta dal libro degli esiti della parrocchia, anche altre famiglie ebree ricevettero aiuto.
Di conseguenza la lunghissima querelle sulla questione se a Città Sant’angelo vi fossero state comunità ebraiche nel passato può essere sciolta con una risposta positiva. E questa piccola comunità, formata sicuramente dalle famiglie Zizza, Salomone e della Penna del Profeta Elia, come molte altre ivi presenti, contribuirono senz’altro alla crescita di Città Sant’angelo. La scelta comunque di stabilirsi nella terra dei vestini da parte di queste comunità giudaiche era dovuta oltre alla relativa tolleranza dei governi meridionali anche al fatto che la città angolana, fin dalla metà del 1300, aveva anche un pubblico fondaco, un’istituzione che si trovava solo nei principali centri di traffico. I tratturi, poi, erano le autostrade dell’epoca e tutti i commerci che, in quel dato momento storico, si basavano sulla produzione e vendita di prodotti agricoli e derivati di essa, transitavano per il 90% dei casi su questo percorso obbligato. Per avere un’idea dell’importanza rivestita dai tratturi basta osservare la costituzione emanata dal Re Carlo I nel 1282 per difendere i mercanti “aprutini” dagli abusi dei “maestri dei passi” che sequestravano sotto falso motivo vettovaglie e animali per proprio interesse, un “bell’affare” che fruttava molto denaro. A quei tempi, infatti, benché l’economia fosse impostata su una chiusura pressoché totale dei confini per limitare al minimo il transito delle merci da e per lo Stato Pontificio, Città Sant’angelo e Atri commerciavano continuamente con le Marche. Per far uscire i prodotti facilmente dal Regno bisognava superare l’inguadabile fiume Pescara attraverso i passi obbligati di Scafa o della Real Fortezza di Pescara dove per l’appunto operavano i “maestri dei passi”.